Da un po’ di tempo mi sono fatto l'idea che la palese ingiustizia – che si ritiene esista secondo un diffuso modo di ragionare- tra chi muore piccino e chi vive cent'anni non esista. Perché i primi racchiudono nel poco tempo tutto della loro vita, mentre gli altri lo diluiscono in un secolo.
Certo il loro modo di comunicare è diverso; criptico, coinvolgente, intenso, e durevole nel tempo per chi resta quello dei bimbi. Diluito, esplicito, definito, usuale quello dei patriarchi.
Mohammed Shohayet di 16 mesi è annegato con sua mamma, suo fratello di tre anni e suo zio attraversando un fiume per sottrarsi alla polizia birmana che sparava sulla minoranza musulmana misera, in un Paese di buddisti che nulla riconosce loro, nemmeno di esistere.
Molti altri sono fuggiaschi come lui da guerre, miserie, persecuzioni così gravi da non poterne più, tanto da rischiare la vita per andarsene come male minore. Per loro decidono i genitori a volte perendo anch'essi, oppure uscendone vivi per patire l'indicibile insanabile tormento del figlioletto perduto.
Va da sé che Mohammed è il paradigma di quanto non deve più succedere.
Egli si rivolge a ciascuno di noi che siamo sulla sponda dei salvati, spronandoci a fare quanto possibile e giusto.
Operare cioè affinché in Italia, in Europa e nel Mondo s'affermi e pratichi quanto solennemente approvato nella "Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo" dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Trasformando l'attuale drammatica situazione dei migranti nell'opportunità storica per realizzare un importante tassello della convivenza civile planetaria tra diversi, in pace con il frutto del comune lavoro.
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