27 ott 2014

Partiti, Costituzione, Modernità.

I partiti ed altre realtà organizzate che intendono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, devono tenere conto dei mutamenti che avvengono nella società di cui sono espressione.

E comportarsi di conseguenza.

I partiti ideologici hanno esaurito la loro funzione con la caduta del Muro di Berlino, ed ora si rifanno pragmaticamente ai problemi che nascono nel quotidiano operare collettivo.

La Costituzione italiana prevede espressamente la loro esistenza (art. 49) e richiede che nascano ed operino con il metodo democratico. Tutto il resto è lasciato all’inventiva e creatività dei fondatori e di quanti con il loro prodigarsi ne alimentano la vita e lo sviluppo.

Agiscono per realizzare i principi affermati dalla Costituzione come il diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che lo rendano effettivo (art. 4); perché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata e coordinata con finalità sociali (art. 41), e che tutti paghino le tasse in ragione della capacità contributiva (cioè chi più ha più dà) con criteri di progressività (art.53).

Alternando con le elezioni destra e sinistra alla guida del Paese, facendo scegliere gli eletti dagli elettori con i collegi uninominali o le preferenze; evitando per quanto possibile formule che le vedano compresenti nel governo, non perché sia riprovevole bensì per il fatto che l’alternanza consente di ottenere il meglio da ognuno nella chiarezza ed a vantaggio dell’Italia.

A proposito di sinistra e destra, di modernità dei partiti, di efficienza, efficacia ed economicità dello Stato e della pubblica amministrazione in generale e di tant’altro, ricordo il libro: Enrico Morando - Giorgio Tonini. L’Italia dei Democratici. Marsilio editore.

Mentre: John Stuart Mill. Saggio sulla Libertà. Edizioni Est, spiega l’originaria indispensabilità della buona politica, non solo per l’ordinata, giusta e proficua convivenza sociale, ma anche per dare gusto alla vita.

 

Lavoro, Sviluppo, Democrazia.

Su una cosa l’Italia è d’accordo: per mantenere il lavoro che c’è e per crearne di nuovo occorrono investimenti.

Mentre si opera perché gli investimenti arrivino anche dal mondo, bisogna attingere dalle risorse autoctone, nazionali.

Esse sono 4 mila miliardi di risparmio privato di cui il 90% nella disponibilità del 10% degli italiani più ricchi.

Una modesta, giusta parte di queste risorse può essere prelevata nel rispetto del dettato costituzionale (art. 53) e destinata alla priorità delle priorità: creare nuovo lavoro.

Un contributo significativo insieme a quanto già si fa ed un segnale di giustizia e fiducia da non sottovalutare. Con il resto che bolle in pentola giudicato utile ma non sufficiente, potrebbe fare addirittura la differenza.

Non so se Eugenio Scalfari abbia in mente questo quando invita i “padroni” a cacciare le palanche. O Diego Della Valle quando si annovera tra quanti possono, disponibili a fare la loro parte se chiamati.

Per certo esiste tra i privilegiati una parte consapevole dei proprii doveri, specialmente in situazioni particolari come quella che stiamo attraversando.

Ed anche chi è disponibile, seppure motivato dalla meno nobile ragione che “tirare troppo la corda” potrebbe mettere in discussione i privilegi, quindi conviene prevenire.

Ancora due parole sulla democrazia correttamente praticata, specialmente quando occorre convincersi e convincere che quanto si sta facendo è il meglio possibile.

Bisogna informare, ragionare, discutere quanto occorre per porre quanti lo desiderano nella condizione di comprendere i problemi e di poter contribuire consapevolmente alla loro soluzione.

Siccome i problemi sono creati da tutti, è essenziale che tutti o quanti più possibile, partecipino alla ricerca ed alla costruzione delle soluzioni.

Altrimenti le medesime non possono essere buone come ci si aspetta e sarebbe necessario, perché nessuno è in grado di fare la parte degli assenti, essendo ognuno di noi un’entità unica ed irripetibile.

 

17 ott 2014

Alluvione a Genova: perché e cosa fare.

A combinare disastri è stata la troppa acqua che arriva al torrente Bisagno, la cui portata massima era stata stimata in 500 metri cubi al secondo dal prof. Gaudenzio Fantoli, incaricato nel 1906 di incanalare il tratto finale dalla stazione ferroviaria di Brignole al mare.

Egli progettò una struttura in cemento armato interrata con sezione libera di metri quadrati 240. L’opera fu poi realizzata nel 1928.

In quel tratto il torrente è già esondato nel 1948, 1954, 1970, 1992, 2011, perché nel frattempo la quantità reale massima di acqua meteorica da smaltire è diventata circa tre volte tanto: cioè poco meno di 1500 metri cubi al secondo, che in nessun punto del suo percorso il torrente è in grado di contenere.

I motivi di questo maggior afflusso sono:

- le piogge più concentrate a causa dei cambiamenti climatici;

- l’insufficiente trattenimento delle precipitazioni sul terreno del bacino imbrifero.

Gli interventi per ovviarvi possono essere:

- realizzazione di un canale scolmatore che bypassi l’abitato cittadino e si scarichi a mare. Soluzione già pensata ma il cui costo è stato ritenuto proibitivo;

- ampliare per quanto possibile la portata dell’alveo attuale del Bisagno a partire dalla foce, rimuovendo i manufatti che sono di ostacolo; aumentando inoltre la quantità di alberi esistenti sui pendii del bacino imbrifero perché le loro chiome e le radici fanno sì che  l’acqua della pioggia rimanga sul posto e percoli nella falda acquifera, riducendo così anche del 40% il volume che si riversa nel torrente.

Si tratta di interventi fattibili anche per lotti funzionali con apprezzabili benefici fin da subito.

Con il torrente Bisagno che tornerà ad essere un elemento naturale compatibile con il contesto urbano in cui è inserito.

Lavorare meno, lavorare tutti.

Di S. Secondo a Torino ricordo il parroco monsignor Pinardi di Castagnole Piemonte poi diventato vescovo.

Lo conoscemmo sul finire del 1960 quando avviammo il Centro di Attività Sociali al n. 11 della via omonima.

Informato che eravamo un gruppetto di giovani variamente assortito che ci occupavamo di problemi del nostro tempo, monsignor Pinardi venne a farci visita per conoscerci. Parlammo, ci invitò a continuare e lasciò un contributo per riscaldarci con la stufetta a legna sistemata nell’ingresso.

Un altrettanto attento parroco per quanto gli capita intorno, è l’attuale don Mario Foradini il quale in un recente articolo (La Stampa 8.10 scorso) propone di abolire il lavoro straordinario in Italia. Egli asserisce che nel nostro Paese i cittadini che lavorano fanno mediamente il 25% delle ore in più dei tedeschi e il 23% in più dei francesi, e che con l’abolizione si otterrebbero 770 mila nuovi posti di lavoro.

Così mamme e papà troppo occupati potrebbero dedicarsi con serenità e in armonia alla famiglia Mentre i senza lavoro insieme al pane quotidiano acquisirebbero la dignità mai avuta di poterlo svolgere, ovvero ricupererebbero quella perduta al suo venire meno.

Dopo riflessioni sugli ulteriori inconvenienti non da poco e le storture che il pluslavoro degli occupati determinerebbe, don Foradini auspica  che la Fiat internazionalizzandosi abolisca il lavoro straordinario come hanno già fatto gli Stati Uniti.

Leggendo l’articolo di don Foradini torna in mente lo slogan sindacale di altri tempi: “ Lavorare meno, lavorare tutti” che allora parve utopico.

Se però la sua carica innovativa riaffiora dall’esperienza sul campo di un pastore di anime che  si occupa anche dei corpi, allora vale la pena di riconoscergli una sua attuale validità.

Ed agire di conseguenza.

Ebola, epidemia senza precedenti.

È giunta la lettera di una delle  organizzazioni non governative impegnata a contrastarla in Guinea, Sierra Leone, Liberia, Senegal, Nigeria.

Racconta di come in una famiglia di cinque persone si sia salvata solamente  la più grande delle tre figlie: 13 anni.

Si tratta di un virus che alligna dove le condizioni di vita sono grame e dove l’acqua corrente è un  sogno; ed anche il cibo è quello che è, e molte delle altre cose essenziali che noi diamo per scontate non ci sono affatto.

Quindi si può dire che la causa principale di Ebola è l’indigenza in cui vivono le popolazioni dei Paesi che ne sono colpiti.

L’Ebola non conosce confini ed è già arrivata in Europa.

Conseguenza della globalizzazione? Certo viaggiamo di più: noi europei per diporto o lavoro; gli africani perché costretti da condizioni impervie di vita e/o da guerre.

Diamoci una mano; prima di tutto per senso di solidarietà umana tra persone e popoli; poi perché vivere in salute è un diritto di tutti, possibilmente ciascuno a casa propria, cioè non essere costretti a cercare altrove condizioni per una vita dignitosa.

L’Ebola va contrastata e vinta dove si manifesta. Ed occorre lavorare per migliorare le condizioni di vita delle persone che sono lì per evitare che si ripeta.

Come si sa tocca ai governi ed alle organizzazioni internazionali farsi primariamente carico di tutto questo.

Ma l’attenzione, l’impegno e un contributo finanziario da parte di ciascuno di noi, fatto pervenire attraverso canali con cui si ha dimestichezza continua ad essere una pratica insostituibile ed efficace. Specie in questo caso dove le persone e le famiglie che si ammalano sono tante e non avendo  la possibilità di curarsi il rischio di morire è molto elevato.

 

12 ott 2014

Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche.

(“la Repubblica” del 5 ottobre scorso)

Eugenio Scalfari insiste ed il titolo del suo editoriale è già un programma: “Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche”.

Il contenuto verte, tra l’altro, sul fatto che il lavoratore- imprenditore ( nuova definizione di padrone attribuita  a Squinzi presidente di Confindustria ) avrebbe in azienda tutto il potere se l’art.18 dello statuto dei lavoratori fosse abolito (ndr: ma il governo non è su questa strada). Quindi siccome il potere comporta doveri, il lavoratore-imprenditore cacci le palanche (soldi) per fare funzionare l’impresa, mentre lo stato compensa i licenziati con sostegno economico, ed anche per la dignità perduta operando perché ci  sia altro lavoro.

Questa sintesi trova conferma nella chiusa dell’editoriale: “Caro Squinzi, lei dice a volte cose molto sensate e a volte – mi permetta di dirlo – alcune sciocchezze. I padroni ci sono sempre ed oggi semmai sono più forti e più ricchi di prima e questo è un punto sul quale lei di solito sorvola ma che rappresenta uno degli aspetti essenziali per risanare la struttura economica e politica di questo Paese”.

Michele Serra ne “L’amaca” riporta una buona notizia  che ha a che fare con lavoro e risparmio.

Milano sta sostituendo le tradizionali lampadine e i neon dell’illuminazione pubblica con i “led” che consentono di risparmiare il 50% di energia elettrica.

Il giornalista ricorda che sarebbe bello ed utile che i media cogliessero questi positivi cambiamenti mentre hanno luogo, così da stimolarne di analoghi anche in settori diversi.

E conclude: “Se è stato possibile sostituire milioni di lampadine con milioni di led, perché non immaginare  di poter sostituire milioni di titoli su zio Michele o sul matrimonio di Clooney con qualcosa di più moderno, funzionale e intelligente?”.

(“il Manifesto” 5.10.2014).

Paolo Berdini denuncia il rischio che gli immobili pubblici messi in vendita dallo Stato per fare cassa finiscano nelle mani della speculazione finanziaria, cioè degli stessi faccendieri che hanno provocato la crisi in cui ci dibattiamo.

Per evitare questa iattura il decreto “Sblocca Italia” in corso di approvazione dovrebbe occuparsene.

Magari, diciamo noi, estendendo la partecipazione alle gare di aggiudicazione con criteri selettivi in quanto a comprovata serietà, competenza, affidabilità dei concorrenti, e stabilendo criteri di utilizzo dei beni che li valorizzi in armonia con lo sviluppo del contesto in cui essi sono inseriti.

 

 

 

Partiti, tessere e democrazia.

I cittadini sono disamorati dalla politica perché ritengono che non li aiuti ad uscire dalle secche della crisi; votano poco più del 50% degli aventi diritto e sono rimasti pochi quelli che prendono la tessera del partito per cui votano.

Eccetto per i congressi perché prevale chi ne ha di più dalla sua parte. Conquistato il partito non si sa poi cosa farne perché conta sempre meno e nelle sue sedi ci vanno in pochi.

Non è pressappoco così che sentiamo dire e che vediamo scritto sui giornali?

E giù cifre e percentuali che dimostrano l’assunto!

Siccome della politica, cioè di qualcuno che ci aiuti a far diventare progetti le opinioni, c’è bisogno, se non è il partito ci sarà qualcos’altro che si presterà a farlo. Con nome e procedure magari diverse, sempre con metodo democratico, perché c’è di mezzo addirittura la Costituzione. (Art. 49. Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale).

Oppure ci si affida a chi ne sa di più per trarci d’impiccio? Come una cambiale in bianco?

Tutte  cose già sperimentate con risultati non buoni od anche pessimi.

La democrazia come metodo così come la conosciamo, è il meno peggio di quanto escogitato finora per vivere insieme in modo accettabile.

Essa presuppone che ciascun cittadino faccia la sua parte. Perchè essendo ciascuno di noi portatore di esigenze e problemi specifici, il nostro personale contributo è indispensabile perché le decisioni che si assumono siano le migliori possibili in quel dato momento.

Da qui non si scappa.

Se poi i partiti così come sono si rivelano non più idonei ad offrire il supporto necessario, tocca a noi cittadine e cittadini costruire una alternativa soddisfacente.

6 ott 2014

Samira.

Samira Saleh al-Nuami è stata torturata ed uccisa da estremisti ammantati da islamici che li ripudiano, a Masul in Iraq.

Avvocatessa attiva in difesa delle donne e delle minoranze, aveva criticato su internet  le violenze perpetrate dall’Isis ( che persegue in armi la costruzione di uno stato parodia del califfato), e la distruzione di edifici religiosi plurisecolari che richiamavano la tolleranza tra fedi diverse.

Portata via da casa sua e imprigionata con l’accusa di avere lasciato l’Islam, e di non essersi pentita (nemmeno sotto tortura!) di quanto scritto, è stata condannata a morte da suoi stessi aguzzini e fucilata sulla pubblica piazza.

Tutto è successo in pochi giorni, tra il 15 settembre ed oggi.

Il martirio di Samira ci dice drammaticamente quanto sia stretta ed aspra da quelle parti, la strada che porta alla tolleranza ed alla conquista dei diritti personali, civili e sociali delle diversità nella libertà.

 

 

 

La prima volta a Milano.

La prima volta a Milano fu all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, in occasione di un seminario che si teneva in un residence di mattino.

Arrivai nel tardo pomeriggio del giorno prima ed all’accoglienza fui oggetto di particolari attenzioni dell’addetto che mi chiese di cenare con lui: declinai l’invito adducendo cose da fare, e non diedi peso alla cosa.

Successivamente venne a bussare alla porta della mia cameretta insistendo ancora. Senza aprirgli dissi che sarei uscito rientrando tardi; così feci di lì a poco eludendolo.

Percorso a piedi un buon tratto cenai spartanamente al bar.

Ancora a passeggio senza meta gustando la Milano dei navigli, ormai in parte coperti.

Il rarefarsi dei passanti e l’infittirsi della nebbia mi indussero a tornare sui miei passi, senonché persi l’orientamento. In giro non anima viva, rade le auto, bar chiusi, nessuna cabina telefonica in vista.

Una figura umana sul bordo della strada intercetta la fioca luce d’un lampione: è una donna.

«Buona sera signorina»;

«Buonasera» mentre ancheggiando s’avvicina;

«Non vorrei infastidirla o importunarla»;

«Si figuri! »;

«Mi sono perso nel buio tra la nebbia; le posso chiedere di aiutarmi a ritrovare via….?»;

«Mi segua fino all’angolo, ormai non si vede oltre il proprio naso»;

Camminiamo fianco fianco per un centinaio di metri in silenzio.

«Ecco ora prosegua, alla prima svolti a destra e si trova nella via che cerca; ce la fa da solo?»;

«Penso proprio di sì, ma lei ha perso tempo; posso almeno offrirle un caffè o un punch al rum se troviamo un bar aperto?»;

«Conosco la zona, non ce ne sono di aperti a quest’ora, poi ho ancora da fare»;

«Allora molte grazie per la gentilezza e buona notte»;

«Di nulla, buona notte a lei».

 

Ambiente e fauna.

Negli animali non esiste la ferocia ma solo la funzione di contribuire all’equilibrio complessivo dell’ecosistema di cui sono parte.

Quindi come fa notare Michele Serra ne “L’amaca”(La Repubblica 28.9 scorso) “è una incauta stupidaggine“ affermare che i lupi sono pericolosi e possono esserlo anche per le persone in attesa del bus ad una fermata in zona agreste; semmai andando per boschi lo sono i cani randagi, le moto da cross e (molto raramente) i cinghiali.

Esiste invece il problema dei danni che i selvatici possono causare alle coltivazioni ed agli allevamenti di animali. Occorre perciò che gli Enti preposti li risarciscano sollecitamente ed affinino il loro meritorio operare, adottando le necessarie cautele per governare con intelligenza e misura la convivenza.

Per i rinoceronti le cose vanno peggio se non si adottano drastiche misure per la loro sopravvivenza. Secondo l’allarme lanciato  dalla star tv e ambientalista sudafricano Braam Malherbe entro il 2026 dovremo dare l’addio all’ultimo rinoceronte.

Infatti “il prezzo dei corni supera i 90mila dollari al chilo e migliaia  di esemplari sono uccisi ogni anno da bracconieri che i governi non fermano”.

E per farne che? direte voi; ma che diamine, per ricavarci farmaci reputati miracolosi e per costruire monili sfiziosi per quanti hanno tanti soldi e una quantità patologica di peli sullo stomaco!

(Notizie dal “Corriere della Sera” 29.9.2014).

 

Aborigeni.

Non voletemene ma si tratta del risarcimento ad un mio consanguineo con il quale è aperta una “querelle” circa gli stili di vita degli aborigeni, che egli addita come esempio cui rifarsi ancora oggi mentr’io li ritengo superati, semmai una testimonianza importante del passato quando sulla terra c’erano poche centinaia di milioni di abitanti , a fronte dei 7 miliardi attuali.

Mentre Sergej Yastrzhembskiy, regista russo già portavoce di Putin e paladino delle tribù in pericolo di estinzione che da anni gira il mondo fotografando queste popolazioni e sulle quali ha già scritto anche due libri, la pensa così.

“l’Africa è il continente che amo di più [….]. Qui c’è la rarissima possibilità di guardare la preistoria delle nostre abitudini e capire come si viveva nell’antichità. Basta dare un’occhiata a come vivono oggi i boscimani o i pigmei. Si possono osservare “in originale“ le fedi nate all’alba della civiltà, prima delle confessioni monoteiste. Sono credenze animistiche fatte di feticci e vodoo. Tutte queste ricchezze stanno per scomparire sotto la micidiale pressione del tempo e della globalizzazione.

Noi civilizzati avremmo molto da imparare da quei popoli. Parlo prima di tutto del loro contatto con la natura di cui si considerano parte integrante e la tutelano. È degna di lode anche la loro capacità di assicurarsi “il pane quotidiano” in condizioni climatiche spesso estreme, servendosi solo di mezzi di lavoro e di caccia che ci paiono tanto arcaici. Inoltre mi ispira un enorme rispetto il loro minimalismo nel consumare soltanto ciò che è strettamente necessario per vivere, e il loro senso di solidarietà con tutti i membri della comunità e il loro modo di educare i figli”. Che preparano ad una vita non facile con pratiche di iniziazione definite da regole non scritte, e prove che provocano anche shock fisici e psicologici.

Sobrietà, coesistenza con la natura rispettando la preminenza dell’insieme, educazione dei figli, relazionata alle odierne condizioni di vita, sono gli insegnamenti che mantengono intatta la loro validità ed a cui possiamo rifarci per tenere in ordine nostra madre Terra e quanto vi esiste, per tramandarla in condizioni accettabili a figli, nipoti e posteri.

 

Eugenio Scalfari, Diego Della Valle e Alan Friedman.

Eugenio Scalfari e Diego Della Valle.

Il primo (la Repubblica 28.9.2014): “I ricchi paghino, gli abbienti paghino, i padroni (con le loro brache bianche come cantavano le leghe contadine ai primi del Novecento) paghino e le disuguaglianze denunciate da Napolitano diminuiranno. Una politica di questo genere, quella sì ci darebbe la forza di indicare all’Europa il percorso futuro”.

Il secondo, Diego Della Valle (a La 7, “Otto e mezzo” la scorsa settimana) ha sparato ad alzo zero contro Renzi e il suo governo e contro imprenditori e ricchi che farebbero poco per il Paese, ed ha promesso una selezione adatta di persone da proporre al Presidente della Repubblica per sostituire il governo ed esperire così  più efficacemente gli obiettivi che egli ritiene confacenti agli interessi dei giovani, del lavoro, lavoratori e imprese e per uscire dalla crisi.

Alan Friedman (Corriere della Sera 29.9.2014) ritiene che Renzi meriti il beneficio del dubbio essendo “l’unico leader politico che si è mostrato disposto a rischiare di schiantarsi contro un muro pur di portare avanti una trasformazione dell’economia italiana e che in questo momento vanta un consenso popolare elevato. Nel bene o nel male Renzi incarna la voglia di discontinuità che è condivisa da milioni di italiani e che è anche una necessità per il bene del Paese”.

La sintesi ottimale è che chi ha i soldi li metta lasciando, come prescrive la Costituzione, che siano il governo ed il parlamento a disporre il loro utilizzo e la democrazia nel suo insieme a controllare che si realizzino gli obiettivi promessi, secondo equità e giustizia e con il lavoro ed i lavoratori protagonisti.