Matrimonio a ventitré anni sia lei che lui, nel millenovecentotrentuno, tre figli maschi in sequenza nei quattro anni successivi. Il padre si vergognava un po’ di questa esuberanza virile: “tucà, brusà”, rimarcava maliziosamente il vicinato. Lei no, andava fiera dei suoi figli, così tutta la vita.
Cresciuti a zuppa di pane e latte, latte con riso o castagne bianche, semolino, polenta e merluzzo. Di festa il bollito, con l’osso per il brodo. A merenda pane con la crosta sfregata da spicchi d’aglio e aspersa d’olio; qualche volta imburrato o con sbarretta di surrogato di cioccolato. All’asilo e poi insieme nei giochi inventati con stracci e vecchie sedie sul terrazzo coperto di casa nei giorni di pioggia.
In libertà fuori casa ma a portata di voce: la mamma li chiamava a rientrare scandendo forte i nomi di ciascuno dalla finestra: non erano ammessi ritardi.
Litigate e zuffe memorabili senza strascichi.
Capelli tagliati all’umberta o rasati dal papà secondo la stagione.
Bagno nella tinozza con acqua scaldata al sole o attinta dalla vaschetta sulla stufa di ghisa nella stagione fredda.
Adolescenti con gli amici a tuffarsi di pomeriggio contro l’afa nelle “bialere”.
Volersi bene tra loro e con gli altri ed aiutarsi sono gli insegnamenti materni, e pregare Dio.
Ancora alle elementari e già a fare cose per aiutare in casa, con la seconda guerra mondiale in corso.
Giovani, divertendosi con poco e cercando ognuno la propria strada.
La mamma se ne va prima dei settantuno, pianta anche da sette nipoti; il papà qualche anno dopo.
Da poco è toccato al più giovane: tanta tristezza.
I due rimasti sanno che la ruota gira com’è giusto e mettono in conto la chiamata. Senza farle fretta.
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