Riporto la vicenda come l’ha raccontata il padre di famiglia.
Erano in tre tra i quattordici ed i sedici anni, uno di colore, corpulento, gli altri indigeni ragazzi come tanti.
Quando arrivo e parcheggio la bici gialla di uso pubblico per un anno pagando 25 euro la tessera, stanno già armeggiando per liberarne una dal supporto cui è fissata.
Li osservo un momento, paiono in difficoltà e azzardo: «vi serve aiuto?» mentre m’avvicino.
Mi guardano sorpresi, si guardano tra loro ed uno abbozza: «non riusciamo a farla uscire»;
«Ce l’avete la tessera da appoggiare sull’apposito lettore ?»;
«L’abbiamo dimenticata a casa» risponde un altro;
«Se mi dite il vostro nome sento il gestore del servizio come si può fare». Al cellulare mi dicono che nessuno dei tre ha acquistato una tessera. Riferisco ai presenti che non la prendono bene.
Uno dei due indigeni: «io pratico le arti marziali»;
Arretro di due passi, saluto come usa in questa disciplina prima di iniziare a battersi e attendo;
«Lei è professore? Perché s’interessa a noi?»;
«Non sono professore ma solamente un papà, vi ho rivolto la parola perché siete giovani e rappresentate il futuro; vi rispetto e chiedo facciate altrettanto nei miei confronti»;
«Però nella striscia di Gaza i palestinesi vivono come in una prigione»;
«Purtroppo è così e non va bene, non è ammissibile. Siccome però la violenza non ha risolto finora il problema “due Popoli due Stati”, bisogna continuare a cercare una soluzione pacifica»;
«Ma il governo israeliano non ne vuole sapere»;
«Molti israeliani, tra cui anche persone importanti, sono per la trattativa di cedere ai palestinesi il territorio necessario e vivere in pace. E l’obbiettivo giusto. Pretendere rispetto dal governo israeliano e portare rispetto a questo popolo»;
«Certo così andrebbe bene, ma chissà se si potrà fare e quando»;
«I giovani israeliani e palestinesi possono riuscire dove i loro padri non ce l’hanno fatta; magari prima di quanto possiamo immaginare; e l’Unione Europea può aiutarli».
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